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A partire dal 7 marzo del 2015, chiunque viene assunto con un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato rientra nel campo di applicazione delle c.d. tutele crescenti (d.lgs. n. 23/2015), una delle riforme più importanti contenute nel Jobs Act.Cosa cambia, in concreto, con questa riforma?
Il rapporto di lavoro si svolge esattamente come prima, e restano invariati anche i criteri di giusta causa e giustificato motivo che il datore di lavoro deve rispettare per motivare un eventuale licenziamento.
Il cambiamento rispetto al vecchio Statuto dei lavoratori (già anticipato dalla legge Fornero del 2012) riguarda le sanzioni da applicare nei casi in cui il giudice del lavoro, a seguito dell’impugnazione proposta dal lavoratore, dichiara illegittimo un licenziamento.
Con l’entrata in vigore delle tutele crescenti, infatti, in questi casi non si applica la tradizionale regola della reintegrazione sul posto di lavoro: al lavoratore che vince la causa, infatti, spetta solo un risarcimento di tipo economico, salvi casi eccezionali di cui diremo meglio dopo.
Un’importante innovazione riguarda il criterio che deve essere seguito per quantificare l’eventuale risarcimento che spetta al dipendente: mentre con la disciplina precedente questa somma era quantificata in maniera discrezionale dal giudice, che doveva solo restare soglie minime e massime predefinite (da 12 a 24 mensilità), con le tutele crescenti viene fissato un criterio di calcolo oggettivo.
Secondo il nuovo criterio, al dipendente che vince la causa spettano due mensilità di retribuzione per ogni anno di anzianità aziendale, con una soglia minima di 4 e una massima di 24 mesi. Questa innovazione riguarda anche i licenziamenti intimati nell’ambito di una procedura di tipo collettivo (che interessa, cioè, almeno 5 persone nell’arco di 120 giorni).
La reintegrazione sul posto del lavoro, come accennato, non scompare del tutto, ma è una sanzione “eccezionale”, che si applica solo per i licenziamenti discriminatori (in questo caso, spetta anche un risarcimento pari a tutti gli stipendi persi dal momento del licenziamento), e per quelli disciplinari fondati su un fatto materiale addebitato al dipendente ma risultato falso (in questo caso, spetta anche un risarcimento, ma questo non può superare le 12 mensilità).
Un caso tipico di licenziamento discriminatorio è quello del dipendente che viene cacciato perché aderisce a un movimento politico inviso al datore di lavoro; un esempio di licenziamento disciplinare basato su un fatto falso è quello in cui l’azienda accusa il lavoratore di un furto che lui, in realtà, non ha commesso.
Le novità appena descritte si applicano anche ai partiti politici, ai sindacati e alle organizzazioni religiose, e – con alcuni accorgimenti – anche alle piccole aziende (il risarcimento spettante al dipendente è di 1 mese per ogni anno di anzianità, da un minimo di 2 sino a un massimo di 6).
La normativa sulle tutele crescenti introduce anche un incentivo finalizzato a convincere datori di lavoro e dipendenti a risolvere le liti senza andare in tribunale: se il lavoratore accetta una somma pari a 1 mese di stipendio lordo per ogni anno di anzianità, la controversia si conclude definitivamente, e l’importo può intascato come somma netta, esente da prelievo fiscale e contributivo. La procedura si può attivare, tuttavia, solo se entrambe le parti sono d’accordo, e solo entro 60 giorni dal licenziamento.
Come accennato in apertura, è importante fare attenzione alle date: le regole sulle tutele crescenti valgono solo per chi firma un nuovo contratto di lavoro a tempo indeterminato a partire dal 7 marzo del 2015.
Chi lavorava già, a tale data, con un contratto a tempo indeterminato, resta soggetto al “vecchio” articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, nella versione modificata dalla legge Fornero del 2012, ed entrerà nel nuovo regime solo se cambierà azienda.
I “nostalgici” di questa normativa dovrebbero considerare che anche la legge Fornero mette al centro del sistema sanzionatorio il risarcimento del danno; la differenza, non banale, con le tutele crescenti sta nel fatto che la riforma rende il sistema più chiaro, certo ed esigibile.
(Fonte: Lavoro&Impresa)