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Il dipendente che viene privato delle sue mansioni dall’azienda non può essere licenziato per essersi assentato senza motivazione dal lavoro, in quanto la mancata attribuzione di mansioni rende irrilevante la presenza sul lavoro. Questo il principio, richiamato dalla sentenza n. 24051 della Corte di Cassazione, con cui si conclude la controversia insorta tra un lavoratore e il suo datore di lavoro in tema di demansionamento, mobbing e licenziamento. Il lavoratore aveva chiamato in giudizio l’azienda sostenendo di aver subito l’assegnazione a compiti inferiori rispetto a quelli spettanti in ragione della propria qualifica contrattuale, subendo una dequalificazione professionale, e chiedeva il risarcimento dei danni subiti; il dipendente impugnava anche il licenziamento disciplinare intimato nei suoi confronti per essersi assentato dal lavoro senza giustificazione per un periodo superiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro applicato. In primo grado le domande del lavoratore venivano respinte, mente in Appello la Corte di Roma rovesciava la decisione, condannando l’azienda a risarcire il danno per la dequalificazione professionale subita, da un lato, e dichiarando illegittimo il licenziamento disciplinare intimato, dall’altro. La Corte di Cassazione, chiamata ad esaminare questa pronuncia, ne ha confermato in pieno l’impianto. Quanto al demansionamento, la Suprema Corte ritiene di non poter entrare nel merito dell’accertamento operato dalla Corte d’Appello, essendo questo un argomento di fatto che risulta sottratto alla propria cognizione.Quanto al licenziamento, la Corte ritiene di confermare la parte della pronuncia di appello nella quale era stata dichiarata l’illegittimità del recesso. Secondo la Società, la condotta del dipendente – assentatosi dal lavoro senza giustificazione – avrebbe configurato comunque un inadempimento contrattuale, anche in presenza del lamentato demansionamento, in quanto avrebbe violato l’obbligo di esecuzione in buona fede del contratto di lavoro.
Tale conclusione era stata rigettata dalla Corte di Appello (con un ragionamento fatto salvo, seppure per motivi procedurali, dalla Suprema Corte), la quale aveva ritenuto la sanzione sproporzionata sia sotto il profilo soggettivo (il lavoratore era rimasto sostanzialmente inattivo e quindi la sua presenza sul lavoro era del tutto indifferente) sia sotto quello oggettivo (l’inoperosità forzata cui era stato costretto il lavoratore non consentiva di qualificare come inadempimento del contratto di lavoro la mancata presenza in azienda). Sulla base di queste valutazioni, la Corte d’Appello aveva ritenuto legittima la condotta del dipendente, che avrebbe formulato – con la propria assenza dal lavoro – una valida eccezione di inadempimento, fondata sul proprio demansionamento, e lo avrebbe fatto senza violare in alcun modo l’obbligo di esecuzione in buona fede del contratto.
(Fonte: Lavoro&Impresa)