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Uno dei principali strumenti utili a ridurre il contenzioso in materia di lavoro è quello dellacertificazione, attraverso la quale le parti contraenti possono richiedere ad una commissione appositamente costituita l’attestazione della rispondenza ai dettami di legge del contratto che andranno a stipulare, ovvero già in essere tra di loro. Ma quali sono gli atti che possono essere certificati?
Mediante l’istituto della certificazione, le parti richiedono a uno degli organismi individuati dall’art. 76, D.Lgs. n. 276/2003 (enti bilaterali, D.T.L., consigli provinciali dei consulenti del lavoro, università, ecc.) di accertare la regolarità del contratto di lavoro in relazione al suo concreto atteggiarsi.
Il D.Lgs. n. 276/2003 prevede che possono essere oggetto di certificazione:
i contratti in cui sia dedotta, direttamente o indirettamente, una prestazione di lavoro;
le rinunzie e transazioni di cui all’art. 2113 cod. civ.;
il regolamento interno delle cooperative, relativamente ai contratti stipulati con i soci lavoratori;
i contratti di appalto di cui all’art. 1655 cod. civ., sia in sede di stipulazione, sia nella fase di attuazione del relativo programma negoziale, anche ai fini della distinzione concreta tra somministrazione di lavoro e appalto.
Oltre alle summenzionate ipotesi disciplinate dal Decreto, esistono ulteriori casi in cui è possibile, ovvero necessario ricorrere alla certificazione.
La L. n. 183/2010 – cd. Collegato Lavoro – all’art. 31, comma 10, ha introdotto l’obbligo per le parti di certificare, laddove pattuite, le clausole compromissorie (pena la loro nullità).
Attraverso tali clausole è possibile deferire ad arbitri eventuali future controversie relative al rapporto di lavoro. Questa possibilità soggiace però ad alcune limitazioni.
Infatti, affinché possano legittimamente apporsi clausole compromissorie al contratto è necessario che ciò sia previsto da accordi interconfederali o da CCNL stipulati dalle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale[1].
Inoltre, non è possibile pattuire e sottoscrivere tali clausole prima della conclusione del periodo di prova, o, nel caso in cui questo non sia previsto, prima che siano decorsi almeno 30 giorni dalla data di stipulazione del contratto di lavoro.
Ancora, le clausole in questione non possono riguardare controversie relative alla risoluzione dei contratti di lavoro, le quali, pertanto, restano escluse dalla procedura arbitrale, che può riferirsi soltanto ad altri aspetti del rapporto di lavoro (ad es. differenze retributive connesse ad un diverso inquadramento, lavoro straordinario non retribuito, ecc.).
In tutti questi casi, il compito delle commissioni di certificazione è quello di accertare l’effettiva volontà delle parti di devolvere ad arbitri le eventuali controversie nascenti dal rapporto di lavoro.
Altro atto certificabile da parte delle commissioni di cui all’art. 76, D.Lgs. n. 276/2003, riguarda le clausole “elastiche” apposte al contratto di lavoro a tempo parziale.
Prima dell’intervento del D.Lgs. n. 81/2015, rientrante all’interno della riforma del mercato del lavoro ribattezzataJobs Act, la previgente disciplina operava una distinzione tra clausole “elastiche” e clausole “flessibili”: le prime consentivano una variazione della durata massima del part-time mentre le seconde consentivano la modifica della collocazione temporale dell’orario di lavoro.
Tale distinzione formale è però venuta meno a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 81/2015.
Pertanto, ad oggi è possibile concordare soltanto clausole elastiche, attraverso le quali, tuttavia, può essere prevista la possibilità di variare in aumento la durata della prestazione, ovvero la sua collocazione temporale.
Affinché sia legittima, l’apposizione di dette clausole al contratto part-time è consentita nel rispetto di quanto previsto dai contratti collettivi.
Nel silenzio dei CCNL, il datore di lavoro ed il lavoratore che intendano sottoscrivere clausole elastiche sono tenuti a pattuire le stesse per iscritto dinanzi ad una commissione di certificazione, dove il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato, da un avvocato o da un consulente del lavoro.
(Autore: Stefano Carotti)
(Fonte: Fisco7)
[1] In caso di mancata attivazione da parte delle organizzazioni sindacali è il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, con proprio decreto, ad individuare le modalità di attuazione e di piena operatività di queste disposizioni (fatta salva la possibilità di integrazioni e deroghe derivanti da eventuali successivi accordi interconfederali o contratti collettivi).