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L’insulto rivolto al superiore gerarchico giustifica il licenziamento in tronco, anche se non si concretizza in gesti violenti o se il contratto collettivo non prevede questo tipo di sanzione, in quanto costituisce una condotta che, sul piano organizzativo, mina l’autorità di chi viene offeso e, quindi, compromette il regolare funzionamento dell’organizzazione aziendale.Con queste considerazioni la Corte di Cassazione (sentenza n. 9635/2016, depositata ieri) prende una posizione molto rigorosa sul tema, da sempre oggetto di grandi oscillazioni giurisprudenziali, della validità del licenziamento del dipendente che insulta un suo superiore.
Nella vicenda giudicata dalla sentenza, un lavoratore era stato licenziato per aver rivolto delle espressioni ingiuriose nei confronti di un superiore gerarchico e, indirettamente, di tutta la dirigenza aziendale.
In primo grado e in appello il licenziamento era stato dichiarato illegittimo (con reintegra sul posto di lavoro e risarcimento del danno) in quanto, secondo i giudici di merito, le espressioni ingiuriose non si erano tradotte nel rifiuto di svolgere la prestazione, e comunque avevano un contenuto privo di intenti realmente offensivi ed aggressivi, trattandosi piuttosto di semplici abitudini lessicali.
La Suprema Corte ribalta queste decisioni, negando che l’insubordinazione del dipendente si possa configurare solo in caso di rifiuto di adempiere alle disposizioni impartite da un superiore gerarchico.
L’insubordinazione, osserva la sentenza, si concretizza ogni volta che il dipendente adotta una condotta capace di pregiudicare lo svolgimento del lavoro nel quadro dell’organizzazione aziendale.
Tra queste condotte, prosegue la pronuncia, può rientrare la critica rivolta ai superiori con modalità esorbitanti dall’obbligo di mantenere dei toni che siano corretti nella forma e nella sostanza, in quanto questo comportamento può minare l’autorevolezza dei dirigenti o dei quadri che subiscono la critica illecita e, quindi, mette a repentaglio l’efficienza dell’organizzazione aziendale.
Questa ricostruzione, secondo i giudici di legittimità, non può essere smentita dal fatto che il contratto collettivo applicabile al rapporto di lavoro non include la condotta ingiuriosa tra quelle passibili di licenziamento (nel caso considerato, il contratto applicabile prevedeva il recesso solo per le condotte aventi un contenuto aggressivo non solo verbale, ma anche fisico).
La giusta causa di licenziamento, infatti, è una nozione legale che non può essere alterata da un atto di natura privatistica come il contratto collettivo, e quindi il giudice è libero di ritenere sussistente la fattispecie ogni volta che rilevi un grave inadempimento del lavoratore, contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, che sia in grado di compromettere il rapporto fiduciario con il datore di lavoro.
(Fonte: Lavoro&Impresa)